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Dal 24 al 26 gennaio i romani celebravano le Paganalia: di cosa si trattava? E quali erano le divinità onorate?
Il termine Paganalia derivava per gli antichi romani da pagus, ovvero villaggio. Le festività erano infatti celebrate fuori dalle mura romane, nelle campagne, perché era lì che risiedevano gli agricoltori e gli allevatori della città. Dalla stessa radice etimologica si originava pure la definizione di pagano con cui, inizialmente, non si indicava l’apparenza ad una religione, ma l’abitante del pagus, cioè del paese fuori città. Più tardi, il termine avrebbe assunto anche un valore diverso, indicando in ambito militare un soldato piuttosto scarso.
Istituite ai tempi di Servio Tullio, in occasione del nuovo ordinamento dei pagi (o almeno così si credeva), comunque, con le Paganalia si volevano ingraziare, in particolare, due divinità: da un lato la Dea Tellus, dall’altro la Dea Cerere. Chi erano e perché erano così importanti per Roma?
Il 24 gennaio, l’inizio delle celebrazioni era inaugurato con un sacrificio animale alla Dea Tellus. Si trattava della divinità della terra, anzi meglio ancora della fertilità del terreno, anche quello metaforicamente inteso come ventre degli animali e come grembo delle donne. Era a lei che si chiedeva di accrescere la popolazione umana e quella animale; di far germogliare la vegetazione e il raccolto. Il 25 si passava poi a festeggiare la Dea Cerere, ipostasi della Madre Terra e divinità anch’essa dell’agricoltura e della fertilità. Mentre la prima poteva intendersi come la dea protettrice del seme all’interno del grembo, Cerere si occupava della forza stessa di questo seme, quindi della crescita e dell’abbondanza finale dei raccolti, e delle nascite. Veniva infatti onorata sia con alcuni sacrifici, sia con l’offerta di torte di farro, il cereale più usato dell’antichità.
Infine, il terzo giorno, il sacerdote addotto alla celebrazione, il flamine ceriale, passava ad invocare i dodici numi minori aiutanti di Cerere, offrendo loro del vino e versandolo sull’altare.
La festa nei villaggi durava per tre lunghi giorni, dal 24 al 26 gennaio e, oltre a canti, danze e riti, i templi e le case venivano abbelliti con ghirlande di foglie verdi e fiori, in attesa della primavera. Per propiziare la stagione che sarebbe arrivata, persino gli animali venivano vestiti a festa. Gli antichi sapevano bene che era grazie a loro e al loro sacrificio che si potevano portare in tavola alcuni prodotti, e davano molta importanza alla morte di un animale, di un essere che quasi si immolava per la loro “sopravvivenza”. Infine, le feste si facevano coincidere con due giorni di mercato e di fiere, e i romani appendevano agli alberi gli oscilla, tipici arredi romani formati da un disco o una maschera che, per mezzo di un filo, oscillavano appunto, richiamando la benevolenza e la protezione da parte delle divinità.
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