Piazza Mancini, un punto di riferimento per chi prende il tram
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Nel 1818 Mary Shelley pubblica Frankenstein. È il primo romanzo che vede protagonista un mostro. Sai che anche Roma ha avuto i suoi mostri, e persino un museo del crimine?
(Fonte: Stile Arte)
Ogni civiltà ha avuto i suoi mostri, spesso utilizzati per esorcizzare la paura. Neanche gli antichi romani facevano eccezione, immaginando l’esistenza di creature notturne bramose di sangue. Il vampirismo di Roma si legava, però, a un visione piuttosto misogina. Col termine strix (in italiano strige) si identificava, infatti, un mostro dalle fattezze femminili che, oltre a nutrirsi del sanguis di adulti e bambini, poteva cibarsi dei loro cadaveri (come riporta Ovidio in un passo dei Fasti). A differenza del racconto moderno, le vampire della capitale non erano esseri a sangue freddo, i “non morti”, ma donne trasformate da un sortilegio.
(Fonte: Luce nel nero)
Il mito delle strix sopravvisse poi alla cultura latina, basti pensare alla parola strega. Non a caso, una delle accuse più frequenti che gli si faceva, durante la caccia alle streghe, era quella di bere il sangue dei bambini. Ma strix arrivò talmente lontano da influenzare la cultura romena, celebre per il suo conte Dracula. Per chiamare i vampiri, in Romania, si usavano allora due termini: nosferatu o strigoi.
Dal latino Lemures, anche i Lemuri erano entità molto temute dai romani. Si trattava di spiriti malvagi, spesso defunti inquieti, che continuavano a vagare con lo scopo di perseguitare i vivi. Per indicare il confine tra la vita e la morte, infatti, a Roma si usava il concetto di limen. Un termine che non era così distante da ciò che i greci chiamavano Lamia, una sorta di donna dal corpo di serpente. E tuttavia, per i romani, i Lemures erano per lo più fantasmi, anzi, come sosteneva Ovidio, anime vaganti e vendicative.
(Fonte: Il Foglio)
Così, tra i Lemuri c’era chi non aveva ricevuto una degna sepoltura o un rito funebre; chi non era stato ricordato o pregato dai vivi; e chi non aveva avuto la sua iscrizione sulla lapide. Tante cause, per una sola conseguenza: il tormento della propria famiglia. Per questo motivo, ogni anno a maggio si eseguivano le pratiche dei Lemuralia. Il pater familias si alzava allora a mezzanotte, per gettare alle sue spalle una manciata di fagioli neri: cibo per i Lemuri, affinché risparmiassero i membri della famiglia. Questi legumi, considerati sacri, rappresentavano un’offerta di vita.
Pensate che a Roma, realizzato dall’Amministrazione penitenziaria, esisteva un museo per i “mostri”, quelli veri però: i casi di cronaca nera, di omicidi e serial killer più spaventosi di sempre. Stiamo parlando del Museo Criminologico, un museo unico in Europa che qualche anno fa, purtroppo, ha chiuso. Nel percorso espositivo, all’interno dell’ex carcere papalino di via Gonfalone, si potevano ammirare i reperti antichi degli atti più criminosi della storia, accompagnati da storie di assassini e strumenti di tortura, risalenti a epoche anche molto lontane, come il medioevo.
(Fonte: museocriminologico.it)
In pieno centro storico era allestito, allora, un vero e proprio luogo horror a tre piani, da far accapponare la pelle. Si passava dalla storia romana del ‘500 fino alla storia d’Italia dei “giorni nostri”. Tra i vari pezzi, c’era persino la divisa del boia Mastro Titta che, tra il XVIII e il XIX secolo eseguì, ben 516 condanne a morte; o la pistola con cui Gaetano Bresci assassinò Umberto I.
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