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Ultima tappa dei Parentalia, iniziati il 13 febbraio, i Feralia rappresentavano la conclusione delle festività dedicate ai morti. Di cosa si trattava esattamente?
Come spiega Ovidio, noto poeta romano, nel secondo libro dei Fasti, il termine Feralia traeva la sua etimologia dal verbo latino Fero, cioè portare. Tipico di questo giorno, ultimo dei Parentalia, era infatti recarsi a commemorare i propri defunti, portando con sé qualche dono. Tra le offerte rituali non comparivano solo fiori, ghirlande o spighe di grano, ma anche pane imbevuto nel vino e sale.
(Fonte: Oltre Magazine)
Che siano nate da qui, tutte le superstizioni sul sale? Il gesto porta fortuna di tirarsene dietro le spalle un mucchietto, quello di non poterselo passare a tavola o di non farlo cadere? Non si sa con certezza ma, in ogni caso, è noto quanto questo condimento fosse prezioso presso i popoli antichi. Tornando ai Feralia, comunque, esisteva una vera e propria prassi strutturata da seguire, affinché il morto potesse ricevere il dono e questo potesse essere deposto adeguatamente sulla sua tomba. Tra le regole della procedura, una fra tutte, prevedeva che la consegna dell’oggetto su – o entro – un vaso d’argilla.
Festa pubblica romana, i Feralia rappresentavano un giorno davvero importante per gli abitanti dell’Urbe che, nel rendere omaggio ai propri antenati rispondevano alla credenza diffusa di poterne placare, col gesto, il sonno eterno. Per questo motivo, più che una possibilità, celebrare i defunti era una vera e propria necessità: con questa usanza i romani, non solo mantenevano, ma rinnovavano ogni anno la tranquillità dei morti che, in qualche modo ricongiunti ai vivi, potevano circolare liberamente tra le mura della città.
(Fonte: Pinterest)
Ricordare la ricorrenza diventava allora essenziale e a dirlo era pure un’antica leggenda, particolarmente in voga tra le file del popolo. Secondo il racconto, durante un periodo di guerra, presi dagli scontri, i cittadini dimenticarono questa tradizionale festività e, il giorno successivo, i morti, risvegliati dall’oblio, tornarono in superficie, spargendo ovunque panico e terrore. Dimenticare i Feralia insomma era più che una sciagura: significava causare eventi nefasti per l’intera città. E (attenzione allo spoiler) chi ha visto il Trono di Spade – che non è ambientato a Roma, ma può ben descriverne le circostanze – può immaginare la scena.
Oltre i doni, poi, usanze tipiche della festività erano: la chiusura dei templi, il divieto per i magistrati di indossare la toga e l’impossibilità di celebrare i matrimoni. Solo così, i romani credevano si potessero placare le anime dopo la morte. Ma cosa rappresentava per il popolo di Roma questa oscura signora? Piuttosto coraggiosi e positivi, la percezione della morte non spaventava i romani, che anzi ammiravano chi sapeva affrontarla senza pietismo o raccomandazione agli dei (ricordiamoci che non amavano i drammi, ma la riservatezza e il silenzio). Come per gli etruschi, anche a Roma si salutava la fine con banchetti e giochi e, se la persona era importante, si organizzava persino una lunga e sfarzosa processione, con sosta nel Foro.
(Fonte: Romano Impero)
Altro discorso valeva, invece, per l’immagine dell’aldilà. Restituita in varie interpretazioni, la descrizione del Regno dei morti poteva dividersi in due principali correnti narrative. Da un lato, c’erano coloro che, attenendosi all’Eneide di Virgilio, ne facevano un luogo spaventoso governato da volti mostruosi; dall’altro, coloro che, sostenitori del vecchio mito dell’Ade, ne facevano un posto – tutto sommato – meno tremendo, governato da Plutone e Proserpina.
(Fonte: Galleria Borghese)
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