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Ennesima festività, direte voi, ebbene si! I romani amavano celebrare le proprie divinità e se queste erano molte, capite da voi, quante dovessero essere le ricorrenze. I Terminalia ne erano un esempio. Di che si trattava?
Dal latino Terminus, il dio Termine era la divinità protettrice dei confini. Oggi diremmo semplicemente nun t’allarga’, se qualcuno parlasse a sproposito o minasse il nostro spazio fisico; allora, i romani avevano questa speciale festività, chiamata Terminalia. Ovviamente, all’inizio, più che riferirsi a concetti metaforici, celebrare il Jupiter Terminalis equivaleva ad una forma di remainder, utile a chi possedeva fisicamente terreni vicini. Per questo motivo, la sua rappresentazione scultorea era semplicemente una pietra o un cippo conficcata nel terreno, a mo’ di divisorio fra le diverse proprietà.

(Fonte: Romano Impero)
Giunta la giornata dei Terminalia, i proprietari romani dei terreni adiacenti non dovevano far altro che abbellire la statua di ghirlande, foglie o petali di fiori; in alternativa, innalzarvi vicino altari grezzi, sui quali poter offrire grano, miele e vino; o sacrificare agnelli e lattonzoli (cuccioli del maiale). Infine, la cerimonia poteva dirsi conclusa col canto delle preghiere al dio. Ma perché era così importante festeggiare i confini?
Introdotta da Numa Pompilio, colui che per primo aveva diviso e assegnato i poderi di Roma, oltre la celebrazione privata tra vicini, esisteva una vera e propria cerimonia pubblica dedicata al dio Termine e festeggiata, da calendario, ogni 23 febbraio (secondo i romani, penultimo giorno dell’anno, prima del cosiddetto Regifugium). Per prender parte alla ricorrenza, bastava recarsi presso la pietra miliare del VI miglio sulla via Laurentina. Questo era infatti il limite originario dell’estensione di Roma, almeno in quella direzione, perché se invece ci si voleva muovere in centro, punto o terminus, dal quale si diramavano tutte le strade, era il Campidoglio, laddove Tarquinio il Superbo, eliminando strutture preesistenti, aveva fatto costruire il Tempio di Giove.

(Fonte: Et in Arcadia Ego – WordPress)
A tal proposito, pare che, per la realizzazione di questo luogo sacro, gli uomini addetti allo smantellamento riuscirono ad eliminare tutto, tranne il cippo del dio Termine che, nonostante gli sforzi, venne alla fine incluso nell’architettura e posto al centro di un’edicola, senza copertura. Una difficoltà che, al contrario di quanto si possa pensare, i romani apprezzarono e presero scaramanticamente di buon auspicio, come simbolo di stabilità futura per la città e di non invasione da parte dei barbari.
In via più generale, infatti, la leggenda mostrava tutta l’importanza del dio Termine che, opponendosi sull’occasione anche al capo degli dei, Giove, sarebbe stato in grado di proteggere adeguatamente non solo i confini della capitale, ma dell’intero Impero Romano. Perciò, diventava imprescindibile onorarlo.

(Fonte: Wikipedia)
Ora, per gli antichi romani, il rispetto dei limiti territoriali aveva una grande importanza: necessario a garantire pace, sicurezza e prosperità, presupponeva anche la necessità di stabilire il rispetto delle leggi. Insomma, rispettare i “confini naturali di un luogo” corrispondeva a rispettare il diritto e le sue norme, dunque ogni tipologia di altro confine. Celebrare Terminus significava, allora, venerare sì il dio dei limes, ma anche del rispetto, del diritto e degli impegni. Per questo motivo, se all’inizio le sembianze del dio erano per lo più nella forma di cippi o pietre, in seguito divennero umane: un busto senza braccia e senza gambe, simbolo di inamovibilità e, insieme, di rettitudine. Non a caso, lo stesso dio Termine diventò presto epiteto di Giove, secondo un ampliamento semantico che – appunto – arrivò a toccare in maniera trasversale più ambiti, rispetto a quelli strettamente territoriali.
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