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Botta de...fortuna? I riti scaramantici dell'antica Roma


A Roma direbbero: “c’hai avuto ‘na botta de…fortuna!”, ma anticamente i Romani avevano creato veri e propri riti scaramantici, per ingraziarsi la fortuna. Vediamo insieme di cosa si trattava!

Perché si usa “botta de…fortuna“?

Vi siete mai chiesti perché la fortuna viene associata alle natiche? Insomma, perché si usa l’espressione “botta de culo” quando si è stati particolarmente fortunati? Che il famigerato “lato b” abbia poteri che non conosciamo? Si tratta di una domanda che, utilizzando il modo di dire, spesso neanche ci poniamo e che, in realtà, trova riscontro presso altre lingue, come lo spagnolo, in cui si dice “tener culo“, e l’inglese “booty“, per indicare un bottino sostanzioso o una vincita, appunto fortunata. Ora, facendo qualche ricerca, due spiegazioni fanno riferimento ai Romani. La prima, rimanderebbe ad una certa pederastia (tendenza erotica) di cittadini di Roma, per i fondoschiena appetitosi di certi giovani che, per questo, venivano spesso ricoperti di regali, dunque potevano ambire ad una vita più fortunata rispetto ai coetanei. La seconda, risalirebbe invece ad un fatto storico, cioè la sconfitta, nel 321 a.C., dell’esercito romano presso le Forche Caudine, nel Sannio.


(Fonte: Pontelandolfo News)

Pare infatti che, in quell’occasione, i romani furono sodomizzati e, chi avesse la fortuna di avere un deretano più ampio, soffrisse meno. Tuttavia, a queste se ne aggiunge una terza, di carattere invece antropologico-evolutivo. In altre parole, l’espressione deriverebbe dal mondo animale e dai nostri antenati prossimi, i primati.


(Fonte: Ask)

In soccorso arriva allora un libro di Desmond Morris, intitolato L’uomo e i suoi gesti. Secondo lo studioso, le natiche femminili sarebbero un forte richiamo sessuale alla specie, in ultimo alla sua sopravvivenza. Alcuni esemplari di scimmie, infatti, mostrerebbero al maschio il proprio di dietro in segno di disponibilità sessuale e di fecondità. Una pratica, rintracciabile anche nella steatopigia (accumulo massa adiposa nei glutei), particolarmente ambita e in voga presso alcune tribù africane. Le parti anatomiche volte alla riproduzione, quindi, avrebbero un valore vitale così alto, che sarebbero utilizzate simbolicamente contro il male, la morte e il malocchio. Di qui, “avere culo”, cioè “avere fortuna”.

I riti scaramantici dei Romani

Comunque stiano le cose, i romani amavano ingraziarsi la fortuna, mediante numerosissime pratiche scaramantiche. Per questo motivo, non mancavano mai di rivolgere alla dea bendata non solo preghiere, ma anche cerimonie e rituali. In particolare, sappiamo, dall’enciclopedia Naturalis Historia di Plinio il Vecchio, che Cesare, dopo una pericolosa caduta avuta da giovane, aveva l’abitudine di ripetere per tre volte uno scongiuro, prima di salire sul proprio carro. Si trattava di filastrocche, a cui i romani erano soliti ricorrere, per scacciare la paura e il pericolo. Una pratica, questa, più comune di quanto crediamo. Se a tavola, ad esempio, si parlava di incendi (dati i numerosi episodi della capitale), Plinio ci informa che uno dei commensali doveva subito versare dell’acqua sotto il tavolo. D’altra parte, in direzione del pavimento, andava anche un’altra strana usanza dei romani: quella di non spazzare via gli avanzi, che vi erano sopra. Non a caso, una scena dei mosaici Asaratos Oikos ne immortalava la consuetudine (sembra pure che i tavolini romani, posti di fronte ai singoli triclini, locali in cui si serviva il pasto, erano piccoli).


(Fonte: Kollectium)

Spazzare via i residui, di pranzo o cena, equivaleva a mandare via la fortuna dalla casa. Per non parlare di quando cantava il gallo! Il verso di questo animale era infatti associato a due pericoli imminenti: l’incendio della domus o la morte di una persona vicina. Per l’occasione, Trimalcione, protagonista di un largo frammento del Satyricon di Petronio, versava del vino a terra; bagnava le candele per purificarle; e infine passava il suo anello della mano sinistra alla mano destra, per non farsi riconoscere dalla morte e ingannarla.

Gli oggetti fortunati o sfortunati nell’antica Roma

In questo senso, poi, tante erano, le simbologie relative alla tavola romana. Innanzitutto, prima di sedersi a mangiare, bisognava togliersi ogni cosa fosse simile a dei cerchi magici (in cui, secondo gli antichi risiedevano i demoni), dunque bracciali, anelli o cinture. Allo stesso modo, i gusci della uova, dopo essere state consumate, erano associati a paure e timori e, più tardi sarebbero stati legati ai malefici delle streghe. Durante l’adolescenza, infine, bambini e bambine dovevano indossare al collo degli amuleti, oggetti utili a propiziarsi la fortuna nella loro crescita. Così come, per le celebrazioni delle vittorie, il carro dei generali veniva ornato con un fallo, detto fascinum, accompagnato da formule pronunciate dai soldati, a tutela dell’invidia altrui.


(Fonte: Finestre sull’Arte)

Infine, restando in tema, arriviamo alla presenza delle formule magiche: espressioni di divinazione che, tramite gli aruspici (i sacerdoti designati all’esame delle viscere nei sacrifici, in origine solo per verificare se erano ritualmente pure, in seguito per trarne indizi per l’interpretazione di prodigi), avevano il compito di garantire la buona riuscita delle azioni da compiere, a fronte di presagi prestabiliti.