“Narciso, la fotografia allo specchio”, una mostra che riflette sul concetto del doppio
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I modi di dire sono una caratteristica del romanesco. Una tradizione linguistica che affonda le sue radici già nell’antica Roma.
(Fonte: teatro e critica)
«Est enim genus iniustae servitutis, cum hi sunt alterius, qui sui possunt esse», «è ingiusto che cadano in servitù soggetti che, per qualità e attitudini, dovrebbero invece essere liberi». Lo scrisse Cicerone nel terzo libro del suo De re publica. La schiavitù è ingiusta, per chi ha capacità e inclinazioni particolari. Prima di lui, anche Esodo, lo scrittore greco celebre per le favole, nella sua De ranis aveva detto una cosa simile. In epoca medievale, questo concetto tornò spesso.
(Fonte: RuvoLive.it)
Un autore anonimo, che forse si può identificare con Gualtiero Anglico, scrisse «alterius non sit qui suus esse potest», «non appartenga ad altri colui che può appartenere a se stesso». Il significato del motto era più o meno simile a quello espresso dai suoi predecessori antichi. Chi è indipendente deve difendere la propria indipendenza. Chi è libero, e può difendere la sua libertà, deve restare libero. Paracelso, uno degli alchimisti più importanti del Rinascimento, fece di questo concetto un motto personale, mettendolo per iscritto, anche in tedesco, su tutti i suoi ritratti.
«Lo spettacolo è finito»: è una frase che la tradizione attribuisce ad Augusto. Pare che l’imperatore pronunciò queste parole in un momento importante della sua vita, cioè alla fine. Morente sul suo letto, e paragonando la sua vita a un’opera teatrale, l’uomo si appropriò allora di questa formula tipicamente romana, con cui solitamente si annunciava la fine di una rappresentazione. A riportarla un passo di Svetonio, nel suo Vita di Augusto.
(Fonte: Studia Rapido)
Il motto è diventato poi un modo di dire, utilizzato comunemente nel suo significato più ampio. Lo spettacolo finisce quando non c’è più niente che si possa fare. Come direbbe Guzzanti, nelle vesti di Padre Pizarro: “il senso della vita è la vita, il fine della vita ‘a fine!“. L’affermazione diventa valida, insomma, nelle occasioni in cui le si è provate tutte e non c’è più nulla da aggiungere.
Su questa scia tematica, arriva infine Orazio e la sua famosa: «carpe diem quam minimum credula postero», ovvero «cogli l’attimo fuggente confidando il meno possibile nel futuro». Eco della nota formula eraclitea del «panta rei», «tutto scorre», la locuzione si rintraccia nelle Odi del poeta latino. E si presenta come un monito, ma anche come un invito: quello a godere il più possibile del tempo presente, senza pensare al domani, che «del doman non v’è certezza» dirà Lorenzo De’ Medici nella sua Canzona di Bacco.
(Fonte: Taranto Buonasera)
Bisogna saper apprezzare quello che si ha, perché l’unico tempo che si può conoscere e cambiare è proprio quello presente, quello che viviamo ogni giorno. La filosofia di Orazio è semplice e pone al centro la libertà dell’uomo nella gestione della sua vita. Il futuro è angoscioso, ma se si è responsabili del proprio tempo, consapevoli che l’esistenza è limitata, precaria e piena di accidenti, allora si può essere felici. In un verso precedente egli scrive, infatti: «dum loquimur, fugerit invida aetas», «mentre parliamo, sarà fuggito avido il tempo». Ovviamente, il tema di questa affermazione è stato ripreso infinite volte da scrittori, registi, poeti, artisti. In ambito cinematografico, il film L’attimo fuggente ne è esempio lampante.
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