È impossibile restare impassibili di fronte a Roma. La sua bellezza è un colpo allo stomaco. Lo sanno bene gli scrittori e i poeti che negli hanno cerato di racchiuderla in versi, oltre a Trilussa, Gioacchino Belli e Zanazzo. Quali sono i più belli? Noi te ne proponiamo una selezione di quattro poesie.
“Roma” di Gabriele D’Annunzio
Roma nostra vedrai. La vedrai da’ suoi colli: dal Quirinale fulgido al Gianicolo, da l’Aventino al Pincio più fulgida ancor ne l’estremo vespero, miracol sommo, irraggiare i cieli… Nulla è più grande e sacro. Ha in sé la luce d’un astro. Non i suoi cieli irragia soli, ma il mondo, Roma.
“Roma d’estate” di Ciro Giordano
Sonnolenta così ti amo le strade quasi deserte sembrano oasi, le piazze con le vecchie panchine le aiole incolte, con i cani gli sporadici fiori. Sembran giganti buoni quei palazzi vecchi di un epoca lontana i cortili interni come piazze di un paese c’è spazio ovunque, così anche nel tuo cuore. Una vecchia fontana acqua buona che sembra un nettare, d’estate trasudan silenzio quelle palazzine liberty coi piccoli giardini pieni di rose. Così ti amo vecchia Roma saggia, senza averne l’aria quasi immobile, levigata come se aspettassi sempre qualcosa che mai ti sconvolgerà.
“Roma” di Giosuè Carducci
Roma, ne l’aer tuo lancio l’anima altera volante: accogli, o Roma, e avvolgi l’anima mia di luce. Non curïoso a te de le cose piccole io vengo: chi le farfalle cerca sotto l’arco di Tito? Che importa a me se l’irto spettral vinattier di Stradella mesce in Montecitorio celie allobroghe e ambagi? E se il lungi operoso tessitor di Biella s’impiglia, ragno attirante in vano, dentro le reti sue? Cingimi, o Roma, d’azzurro, di sole m’illumina, o Roma: raggia divino il sole pe’ larghi azzurri tuoi. Ei benedice al fosco Vaticano, al bel Quirinale, al vecchio Capitolio santo fra le ruine; e tu da i sette colli protendi, o Roma, le braccia a l’amor che diffuso splende per l’aure chete. Oh talamo grande, solitudini de la Campagna! e tu Soratte grigio, testimone in eterno! Monti d’Alba, cantate sorridenti l’epitalamio; Tuscolo verde, canta; canta, irrigua Tivoli; mentr’io da ‘l Gianicolo ammiro l’imagin de l’urbe, nave immensa lanciata vèr’ l’impero del mondo. O nave che attingi con la poppa l’alto infinito, varca a’ misterïosi liti l’anima mia. Ne’ crepuscoli a sera di gemmeo candore fulgenti tranquillamente lunghi su la Flaminia via, l’ora suprema calando con tacita ala mi sfiori la fronte, e ignoto io passi ne la serena pace; passi a i concilii de l’ombre, rivegga li spiriti magni de i padri conversanti lungh’esso il fiume sacro.
“Serata romana” di Pier Paolo Pasolini
Dove vai per le strade di Roma, sui filobus o tram in cui la gente, ritorna? In fretta, ossesso, come, ti aspettasse il lavoro paziente, da cui a quest’ora gli altri rincasano? E’ il primo dopocena, quando il vento, sa di calde miserie familiari, perse nelle mille cucine, nelle, lunghe strade illuminate, su cui più chiare spiano le stelle. Nel quartiere borghese, c’è la pace, di cui ognuno dentro si contenta, anche vilmente, e di cui vorrebbe, piena ogni sera della sua esistenza. Ah , essere diverso – in un mondo che pure, è in colpa – significa non essere innocente…
Va, scendi, lungo le svolte oscure, del viale che porta a Trastevere: ecco, ferma e sconvolta, come, dissepolta da un fango di altri evi, a farsi godere da chi può strappare, un giorno ancora alla morte e al dolore, ha ai tuoi piedi Roma… Scendo, attraverso Ponte Garibaldi, seguo la spalletta con le nocche, contro l’orlo rosicchiato della pietra, dura nel tepore che la notte, teneramente fiata, sulla volta, dei caldi platani. Lastre d’una smorta, sequenza, sull’altra sponda, empiono, il cielo di lavato, plumbei, piatti, gli attici dei caseggiati giallastri. E io guardo, camminando per i lastrici, slabbrati, d’osso, o meglio odoro, prosaico ed ebreo – punteggiato d’astri, invecchiati e di finestre sonore il grande rione familiare: la buia estate lo indora, umida, tra le sporche zaffate, che il vento piovendo dai laziali, prati spande su rotaie e facciate. E come odora, nel caldo, così pieno, da esser esso stesso spazio, il muraglione, qui sotto: da ponte Sublicio fino sul Gianicolo, il fetore si mescola all’ebbrezza, della vita che non è vita. Impuri segni che di qui sono passati, vecchi ubriachi di Ponte, antiche, prostitute, frotte di sbandata, ragazzaglia: impure traccie, umane che, umanamente infette, son lì a dire, violente e quiete, questi uomini, i loro bassi diletti innocenti, le loro misere mete.
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