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Si Trova nella nella Basilica di Santa Cecilia in Trastevere, l’altro Giudizio Universale di Roma. L’autore fu Pietro Cavallini. Ma la cosa interessante è che questo dipinto rappresenta, ancor oggi, una delle più importanti innovazioni pittoriche di sempre. Scopriamolo insieme!
Per raggiungere la basilica minore di Santa Cecilia vi basterà costeggiare il fiume Tevere; recarvi nel suggestivo rione Trastevere, nella piazza omonima alla chiesa, e raggiungere il civico 22. È qui che si trova l’altro Giudizio Universale di Roma. Per essere esatti, antecedente a quello del Buonarroti (1535-1541), della Cappella Sistina. Dipinto nel 1293 da Pietro Cavallini, questo scenario apocalittico, sicuramente meno terribile rispetto a quello di Michelangelo, rientra di diritto fra i capolavori del panorama artistico romano.
(Fonte: Italian Ways)
Anche se, ad essere onesti, non fu semplice conservarne le fattezze, sebbene esemplare di una delle invenzioni pittoriche più importanti di sempre. Ma procediamo per punti. Il lavoro venne commissionato, all’allora ultra quarantenne Cavallini, dal cardinale addetto alla custodia della basilica. Siamo intorno alla seconda metà del XIII secolo. E, mentre Arnolfo di Cambio realizza lo splendido ciborio della chiesa, nel 1289 Pietro de’ Cerroni, anche detto Cavallini, comincia ad affrescare, pennelli e colori alla mano, la controfacciata al mosaico dell’abside, coniugando insieme i dettami della Scuola Romana (una delle più importanti correnti stilistiche dell’epoca), le esperienze gotiche del Cimabue e le più recenti pennellate del contemporaneo Giotto.
Uno dopo l’altro prendono forma i protagonisti del Giudizio Finale, l’escatologia cristiana della fine dei tempi ad opera di Dio. Pietro Cavallini, per l’occasione, sperimenta una nuova tecnica, rivoluzionando per sempre, insieme al giovane collega fiorentino Giotto, la percezione della figura e dei volti. E, tuttavia, ciò che oggi resta a noi da ammirare è soltanto una porzione di quell’incredibile opera d’arte, la principale: Gesù tra gli Apostoli. Ispirato dalle parole del Vangelo di Matteo: «II Figlio dell’Uomo seduto sul trono della sua gloria e dodici suoi apostoli seduti con lui a giudicare le dodici tribù del suo popolo» (vv 19,28), di quel racconto figurato giunge ai nostri occhi soltanto una parte, la superiore. Nel XVI secolo, infatti, si decise di costruire un coro, da adibire alle monache di clausura del convento. Per far spazio a quell’aggiunta, però, venne mutilato il dipinto. In particolare, venne coperto da una volta lignea. Rimasto in sordina per oltre quattro secoli, solo nel XX secolo fu riportato alla luce e, con lui, fu restituita al mondo dell’arte una delle sue prime raffigurazioni tridimensionali.
Per la prima volta in assoluto, Cavallini inserì nel suo lavoro il volume. Il volume dei corpi, il volume della carne. Un volume che a pensarci bene verrà poi ripreso, amplificato e portato alle sue estreme conseguenze, dalla stessa versione michelangiolesca dell’episodio. I volti di questo Giudizio non esprimono solo qualcosa, non sono solo in angolazione rispetto alla posizione frontale, ma si discostano da quei riferimenti bizantini, tanto in voga al tempo.
(Fonte: Artepiù)
Quelle di Cavallini non sono solo figure simboliche: sono uomini in carne e ossa. Sul trono, ornato di aurea, l’espressione serena del volto di Cristo che chiama a sé, con la mano destra, i beati (che non vediamo, perché protagonisti della parte inferiore). Intorno, da sinistra a destra e viceversa, uno ad uno gli apostoli. A colpire lo sguardo, però, sono gli angeli. Le ali dei cherubini e l’esaltazione del loro cromatismo, fanno di questi personaggi davvero il centro dell’opera pittorica. Tanto che, non sarebbe esagerato, affermare si tratti di una delle più belle configurazioni angeliche della storia dell’arte. A primeggiare su tutto allora diventa l’intensità del colore, in tutte le sue possibili sfumature, atto a definire spazi e forme.
(Fonte: Appunti di Vita)
Eppure, nonostante tasselli più che influenti dell’orizzonte artistico medievale, il destino dei lavori di Cavallini fu tutt’altro che roseo. La maggior parte delle Cappelle, a cui l’artista mise mano, andarono per lo più distrutte. San Paolo fuori le mura fu colpita da un incendio nel 1823; San Giovanni in Laterano fu stravolta completamente, e irreversibilmente, nel seicento; e San Pietro in Vaticano, giunta a noi solo attraverso delle copie, e realizzata al tempo di papa Niccolò IV, fu demolita qualche secolo dopo. Insomma, per le opere superstiti delle stesso autore, a Roma, a parte all’interno di Santa Cecilia e di Santa Maria in Trastevere, ci si deve spostare nel rione Ripa. Dove, per anni attribuito al Giotto e poi riconosciuto al Cavallini, si trova l’affresco del Catino della Chiesa di San Giorgio in Velabro.
(Fonte: Gli scritti)
Se poi volete uscire (quando si potrà ndr) dalla città eterna, dovete spostarvi al ciclo di decorazioni della Basilica di San Francesco di Assisi.
Infine, vi lasciamo con un quesito aperto: forse, per le poche testimonianze, molti l’hanno sempre considerato un “artista minore” come si afferma in Grande, grosso e Verdone?
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