“Tra Sacro e Profano” la pittura di Ulisse Scintu a Palazzo Ruspoli
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Per la rubrica “Divinità di Roma”, oggi parliamo della divinità delle selve, la dea Diana, conosciuta ai più perché associata spesso al caratteristico borgo di Nemi. Chi era Diana? E perché era importante per i romani?
C’è della poesia nella scelta di chiamare questa dea romana col nome Diana. Dovete sapere che l’etimologia del termine risiedeva infatti nella radice del latino “dius“, “della luce“, da “dies” ovvero “la luce del giorno“. Così, l’appellativo Diana rimandava alla scena poetica di un raggio di luce che illuminava un bosco, filtrando lieve dalle fronde e passando attraverso i rami seminudi degli alberi. E la dea Diana rappresentava, appunto, per i romani la flora e la fauna selvaggia, signora delle selve e protettrice degli animali selvatici; nonché custode delle fonti, dei torrenti e della verginità, e simbolo del femminile, perché in grado di assicurare alle donne parti non dolorosi.
(Fonte: wikipedia)
Di probabile derivazione greca, quindi traduzione romana della dea cacciatrice Artemide, non era raro vedere Diana portare in una mano una fronda e nell’altra una coppa ricolma di frutti, dea propizia alla caccia e alla raccolta, come la sorella greca. Gemella di Apollo (o Febo), poi, secondo la mitologia latina, Diana poteva considerarsi una delle tante figlie (nate da rapporti extraconiugali) di Giove e dall’incontro con Latona.
Dato che poi il principale luogo di culto di questa divinità si trovava presso il piccolo lago laziale di Nemi, la dea cominciò ad essere associata ben presto a quest’area dei colli Albani e al bosco che qui sorgeva, il cosiddetto negus aricinumper, chiamato così perché a pochi passi dalla città di Ariccia (da cui l’appellativo aricinumper). Lo stesso Rex Nemorensis, ovvero il sacerdote predisposto al culto di Diana, viveva nel bosco sacro sulle rive del Lago di Nemi. Più tardi, tuttavia, anche a Roma sorsero alcuni edifici adibiti al culto della dea: sul colle Aventino; nel quartiere delle Carinae, sull’Esquilino; e in alcune zone limitrofe come l’area del Tusculum. Di scoperta relativamente recente, infine, alcuni storici trovarono tracce di un santuario in onore della Diana Umbronensis all’interno del Parco naturale della Maremma.
(Fonte: Comune di Nemi)
Per chiunque voglia mettersi sulle tracce di questa antica divinità romana, tappa essenziale resta però il borgo di Nemi, e le vestigia di quel santuario di cui restano numerosi e suggestivi ruderi, come l’altare e i nicchioni, e molte statue, purtroppo sparse in molti musei. In America, nel Museo dell’Università della Pennsylvania e al Museum of Fine Arts di Boston; in Europea, nel museo del Castello di Nottingham e alla Ny Carlsberg Glyptotek; e infine nel Museo delle navi romane e nei musei romani di Villa Giulia e delle terme di Diocleziano.
(Fonte: Gruppo Archeologico Speculum Dianae)
Tra gli studiosi non mancò, inoltre, chi associò Diana ad un’altra tipologia di culto, quella legata alla magia e alla stregoneria. Come riportato da Charles Leland nel Vangelo delle Streghe, libro redatto con lo scopo di descrivere le credenze di un’oscura tradizione toscana, Diana era infatti la protagonista di alcuni rituali mistici popolari. Adorata come dea dei poveri e degli oppressi – a Diana erano devoti soprattutto i perseguitati dalla Chiesa cattolica – alcuni fedeli diedero persino vita a racconti, miti e storie per divulgarne il culto.
(Fonte: Il bosco delle Streghe)
Narrazioni in cui la dea non era affatto vergine, ma era sposa di Giove e madre di Aradia, stando all’immaginario folcloristico persino attivista tra le fila del popolo, per liberare gli schiavi e amplificare il culto associato alla madre. Per quanto riguarda l’arte, infine, Diana fu spesso raffigurata nelle vesti di una donna cacciatrice, dall’aspetto androgino e virile, con arco e frecce, spesso accompagnata da un cervo, e vestita di abiti semplici ad esaltarne la natura dinamica.
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