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Le canzoni di Baglioni, una mappa su Roma


Dopo i luoghi di Roma delle canzoni di Venditti, non potevamo non parlare della Roma di un altro big assoluto della musica italiana, Claudio Baglioni!

Canzoni alla mano, la Roma di Baglioni

Da Trastevere a Centocelle, da Porta Portese allo stadio Flaminio, da Montesacro a Piazza del Popolo: i testi delle canzoni di Claudio Baglioni somigliano ad una di quelle guide turistiche, che compriamo per girare una città. Solo che, quella del cantautore romano, è una mappa tutta speciale: descrizioni autentiche e spicchi di quotidianità romana, le parole di Baglioni, danzano per le vie di Roma, mostrandoci la città sotto ogni impercettibile sfumatura. Ballads dal sapore romantico, adagiate su ritmi pop, gli spartiti del musicista somigliano a macchine del tempo, o a tagli di Fontana che vanno dritti al punto: dai passati anni ’70 al presente, Roma, spogliata di ogni sovrastruttura apparente, ne viene fuori più reale che mai. Siete pronti a seguirci in questo suggestivo tour? Vi serviranno soltanto un paio di cuffiette! 

’51 Montesacro 

«’51 montesacro tutto cominciava
In un subaffitto e un muro che sudava
Due gambette storte e in testa una banana
Un triciclo e un golfino di lana
Un cane di pezza e a un occhio un bottoncino blu
Mamma che cuciva “mamma callo pu cci?”»

Qui comincia la storia di Claudio Baglioni, a Montesacro, il 16 Maggio del 1951. Una coppia di origine umbra, emigrata nella capitale per lavoro, dà i natali ad uno dei cantanti romani più celebri di sempre. Padre, «brigadiere che scrive poesie», madre,  sarta: così il loro unigenito figlio, Claudio, li descrive; così prende avvio la Leggenda di Strada Facendo. Nel testo, i riferimenti alla Capitale, di quegli anni lì, abbondano: dalla vicina che utilizza «l’olio di fegato di merluzzo», alle «biglie colorate, sempre e solo a fare un gioco»; dalle «domeniche piovose dei castelli» al «concorso di canzoni a Centocelle» e, poi, al ’66, quel tempo che vola via.

Questo piccolo grande amore, 1972

Sono gli anni ’70 e Roma, in piena rivoluzione culturale, è la muta osservatrice di amori travolgenti, di passioni forti, di tumulti e cambiamenti. Nel 1972, l’album più famoso di Baglioni vede la luce. Si tratta di Questo piccolo grande amore: un titolo basta ad inserirlo di diritto nella storia della discografia italiana. L’album ripercorre gli avvenimenti di Roma, come fosse un suo preciso manifesto: è il sentimento di una città, dai contorni labili, che cerca di prender forma negli occhi di un ragazzo. Ad osservare la storia, uno spettatore unico (personificazione di ognuno) che, viaggiando attraverso il caos cittadino, incontra l’ebrezza del primo, apparentemente piccolo, grande amore.

«Piazza Del Popolo noi cantavamo
Ed eravamo una sola cosa
Poi tutt’a un tratto gente che piange
Gente che spinge
Gente che va a terra
Mi trovo a correre come un dannato
Non ho più fiato, non so dove andare» (Piazza del popolo)

Questo l’intro dell’album: cercando riparo dalle rivolte di Piazza del Popolo, un ragazzo entra in un bar e trova lei. La «faccia pulita», della ragazza, le chiede da fumare. Poi «Una coca, un panino e quel suo naso in sù, le Muratti finite, le ricompri tu?». Roma è nel vortice, tutto è in subbuglio, ora anche il cuore. Parte Con tutto l’amore che posso: il Lungotevere, il tramonto, il «valzer pazzo» sulle sponde del fiume, il bacio improvviso. Roma è un tappeto che si stende, ad ogni passo dei due amanti; Roma è il sole che li sorprende addormentati, tra le fronde e gli scalini; è gli amici di una vita che sghignazzano in piazzetta (Che begli amici!); è la libertà di «una pizza dar Sor Pietro» e di «una corsa a Porta Pia» (Mia libertà). Roma è la Prima volta, i sospiri del mare, non così lontano; è la paura del primo ti amo, l’incertezza che venga ascoltato e accolto. Roma è il giorno del sì (Quel giorno); le foglie gialle d’autunno sui viali (Io ti prendo come mia sposa); ma è anche la cartolina rosa, la stazione Termini di un treno, che porterà lontano (Cartolina rosa). Roma è il prete che suggella quel piccolo grande amore, prima delicato e silenzioso, poi potente, come la confusione, le urla dei mercati rionali, i prezzi a ribasso accatastati sui banconi.

Roma è Porta Portese!

«È domenica mattina
Si è svegliato già il mercato
In licenza son tornato e sono qua
Per comprarmi dei blue jeans
Al posto di questa divisa»

Roma è la vecchia col banco che sta lì «da quarant’anni o forse più» e che ne ha vista passare di gente e di esistenza fra «scannati, ricchi ed impiegati, capelloni, ladri, artisti e “figli di”». Si procede a gomitate, per farsi spazio, fra i passanti che si affollano e le «patacche» che cerca di rifilarti qualcuno, spacciandole per occasioni. Porta Portese è la consapevolezza che tutto scorre, che «d’amore nun se’ more», però «se’ sta male», sopratutto se, proprio lì, si fanno strani incontri. Allora, Roma si trasforma in una bugia, di quelle bianche che diciamo a noi stessi e agli altri, per convincerci di non aver bisogno di nulla. Ma la verità è che non si può «fare a meno di te, di ieri, dei tuoi grandi occhi chiari». Non si ha fame, non si vuole nessuno, ma «io ti voglio, quanto ti voglio e non me ne importa niente di ciò che hai fatto, se ci sei stata a letto, tanto il tempo aggiusta tutto» (Quanto ti voglio). E, forse davvero, gli anni riusciranno a fare ordine: ci si ritroverà e sembrerà come il primo giorno, anche se non servirà a niente, a quel punto, «l’amore che posso» (Sembra il primo giorno).

Poster, 1976

Roma adesso è tutta in un metrò, nelle banchine fredde, nell’attesa del treno delle 7.30. È nelle mani in mano e in «un bambino che si tuffa dentro ad un bignè». L’orologio segna l’una e dieci, ormai da due anni; il nome della stazione non si legge più, perché è mezzo cancellato, ma non importa: c’è un poster, parla di luoghi esotici e tu sogni di fuggire via, lontano. Da una radiolina arrivano le note di un’orchestra jazz e sui binari c’è tutto quello che passa e passerà, come quei due ragazzi «che si fan promesse per l’eternità». Un uomo si lamenta del governo, della polizia, e Roma che è il centro del mondo, ora, ti appare solo come la voglia di fuggire via.

Montemario, La vita è adesso, il sogno è sempre 1985

Affacciato da una delle terrazze più romantiche di Roma, Baglioni scriverà La vita è adesso, con la città eterna ai suoi piedi. L’album venderà milioni di copie e non è un caso. All’interno, un’alternarsi di richiami: sono gli anni ’80, quelli dei mondiali di calcio; dei palazzi nuovi, dei cantieri aperti e degli Amori in corso. Roma è pronta a rinnovarsi e s’affaccia incerta al futuro. I baretti, il boom economico di quelli «strangolati da cravatte, che dentro la ventiquattr’ore portano la guerra» (Uomini Persi) e la vita che è adesso e ch’è fatta di spintoni in avanti. A Roma, è il tempo delle domande, di chi si chiede «cosa sarà il futuro»; di chi si risponde, dall’alto di una Balconata, che per morire basta un tramonto (La vita è adesso), sulle mille strade della capitale.

Oltre, lo stadio Flaminio

Siamo giunti agli anni ’90 ed è allo Stadio Flaminio, nel luglio 1991, che Baglioni deciderà di ritornare in scena. L’ultimo suo capolavoro è uscito da un anno e si chiama Oltre. I fan non riescono a comprenderlo subito; la critica già lo ama: accompagnato da artisti del calibro di Pino Daniele e Mia Martini, nell’album la meravigliosa Mille Giorni di te e di me diventerà presto la colonna sonora di molte storie romane. Per la prima volta, Claudio sperimenterà il palco al centro, tratto peculiare del suo stile e della sua idea di spettacolo; oltre ai suoi cavalli di battaglia storici, canterà i brani di Oltre. Il popolo di Roma non ha mai smesso di acclamarlo e lui, che ha sempre cercato di contenere la città nelle parole, stavolta, si lascerà contenere da un abbraccio, quello di Roma.